Odio il mio corpo.
Agli occhi degli altri sono bella, ma in questo specchio vedo solo deformità. Ho i solchi nella pelle, sono come scavata. Al posto degli occhi ho due burroni. Un volto troppo magro rispetto al busto, le spalle larghe e il torace troppo ampio rispetto ai seni. Questi solchi che fa la mia pelle, sembrano scavati da mani che piegano la carne e la deformano, ogni volta che mi guardo allo specchio. Così devo tagliarla, questa pelle deformata, staccarla con la lama di un coltello, tirarla via.
Avrei voluto essere una regina, perché non lo sono e, credo, questo corpo così sbagliato sia il frutto di certe cattive esperienze. Il Salento era la terra dell’estate. Era lì che si avveravano i miracoli e gli incubi. Non so quanto ci sia di vero e quanto di onirico, d’altronde Trauma e Sogno in tedesco hanno la stessa radice: Traum.
Quanto al mio corpo, avrei preferito essere una di quelle povere cagne violentate per strada da uno sconosciuto, una di quelle che non hanno scelta. Quel che odio di me è che io di scelta ne avevo, l’ho sempre avuta, ho preferito però farmi mangiare dagli sciacalli. I loro denti sulla pelle sono sbarre di un’unica prigione che mi lascio crescere addosso. Quel che odio di me è l’aver concesso loro di dilaniarmi. Avevo scelta, stare nel mondo, seguire strade predefinite, non rivoltarmi così tanto contro certi insegnamenti. Avevo scelta, nell’acqua, nuotare lontano, andare via da quelle braccia e quelle mani ficcate dentro il costume. Avevo dodici anni, sarei potuta fuggire. Avevo scelta dentro quel parco giochi. Il cigolio delle altalene. Il mio top rosa e il mio fuseaux rosa.
Non dirai niente a nessuno.
A nessuno.
Consumai i respiri sui suoi. Non era un estraneo, un malvivente, aveva appena un anno in più di me. Le sue mani dappertutto. E avevo paura. Restai immobile.
Aiutami, disse.
Senti, ho cambiato idea, andiamo via, ti prego.
Le altalene cigolavano e cigolavano e cigolavano. Cercai di alzarmi ma mi tirò giù. Scivolai nel terreno. Le cosce serrate. Io immobile.
Dai! La sua voce s’infilò nel corpo.
Io immobile. Avrei potuto alzarmi e spingerlo via. Ho pensato fosse meglio lasciare che si sfogasse e che tutto finisse quanto prima. Ho chiuso gli occhi. Il suo corpo su di me era quello di una bestia. Il suo respiro. Le altalene cigolavano e cigolavano e cigolavano. Non ero lì, non so dove, ma non lì.
Mi sono svegliata con le cosce e tutto il pantalone bagnato di qualcosa di caldo, il suo odore non andrà mai via.
È l’una, hai fatto tardi, torna a casa, mi disse, ti spiace se non ti accompagno?
Non parlavo più.
Tornai a casa ed era tutto così zuppo e impregnato. Qualcuno mi avrà visto passare con i pantaloni rosa pregni di rosso sul culo e sulle gambe. Solo chiudendomi in bagno l’ho visto, il sangue, tutto quel sangue. Dovetti trovare una scusa da raccontare ai miei. Mia madre bussò.
Sono caduta su un muretto, non ci credette.
Allora uno sconosciuto mi ha violentata in pineta, e svenne.
Che cos’ho fatto? Mi chiesi, sentendomi in colpa.
Poi mio padre seppe farmi confessare, hai detto una bugia, hai fatto molto male a mamma, dobbiamo parlare con quel ragazzo, ci parleremo.
Io non voglio!
E invece ci parleremo. Dovremo portarti dallo zio ginecologo per sapere se sei incinta.
Luci al neon. Dita nella vulva. Ratti. Un miliardo di ratti mi entrano dentro e dilaniano. Tutti a sproloquiare sulla mia intimità, mi hanno violentata per la seconda volta.
L’Oracolo dice sia stato questo l’incipit. E quei farmaci che mi diedero, Tegretol, Tavor, Valium. Stabilizzatori del tono dell’umore, benzodiazepine, ansiolitici.
Sul corpo mio chiunque ha agito e disposto come meglio credeva. Ora questo corpo voglio spezzarlo, infrangerlo, dividermi ancora, essere oltre, indossare maschere mostruose, divenire regina. Questo corpo voglio renderlo totem, oggetto di adorazione, divino. Questo corpo vorrei darlo a tutti e poi sottrarlo a mio piacimento, ma non è mai abbastanza. Sempre mi piego a chi lo disdegna, sempre scelgo immaginarie vittime-carnefici. Vorrei farlo a voi tutto questo male.
A chiunque consegno le chiavi della prigione. Nessuno vuole aprire. E tutti ridono oltre le sbarre.
ph Pino Alberto Sturniolo
© i. p.
Una volta l’estate. Recensione di Marilena Votta
Una volta l’estate
La distopia di un mondo nel quale l’estate rovente continua ad avanzare implacabile è entrata nei miei pensieri.
Non mi lascerà più. Questo libro è un mondo di porte che si dischiudono sulle brillanti oscurità che ci sforziamo di nascondere agli occhi del mondo. Ma Maya non vive di maschere. Maya, la protagonista, cerca l’amore e l’accettazione delle sue contraddizioni.
Lei vuole rimettere insieme i pezzi e ritornare integra attraverso la socialità di un matrimonio con Edoardo Carducci, addirittura sposato due volte, con rito civile e religioso. Per un po’ la sicurezza del matrimonio sembra farle trovare un posto nel mondo.
La realtà però è molto complessa e di fatto il matrimonio, e la successiva gravidanza, fanno esplodere il precario equilibrio di un’anima la cui sensibilità è troppo grande per essere compressa in un ruolo.
I due si cercano e si sfuggono in un tempo sospeso che ripropone sempre la luce accecante di un torrido paese del sud, di una casa a Roma con lenzuola disfatte e sudate o di una loro precedente vacanza in Grecia.
Il tempo del romanzo è un tempo talmente denso e immobile da rendere tangibile quello che tante volte pensiamo accada in mondi paralleli. Non c’è altro che un eterno, terribile presente, in cui tutto è destinato a replicarsi. I mondi pregni di colore delle tele di Maya, in particolare “la donna con il braccialetto”, esplodono dalle pagine di carta e ci macchiano l’anima.
Sfumature di blu oltremare, rossi sanguigni e voraci, profondità che ci ricordano che la realtà che viviamo è davvero solo un velo.
L’incontro con Anya, la postina inquieta e seducente, e l’allontanamento di Edoardo in una missione di pace fanno evolvere gli incubi frammisti ai ricordi traumatici di un’infanzia vissuta sotto il segno della perdita del padre e dell’inaffettività della madre.
Maya a un certo punto perde tutto, pure il suo nome, tanto che i medici finiscono con il chiamarla signora Carducci, cristallizzata nel ruolo di giovane moglie e madre, e questo sarà la miccia che farà esplodere le contraddizioni di chi le vive accanto e non vuole lasciarla libera.
Chi vuole bene a Maya? Sicuramente i lettori. Quelli che amano le storie di persone con problemi, quelle che sembrano sconfitte e invece sono solo alla ricerca di qualcosa di autentico oltre la corporeità.
Le voci di Maya ed Edoardo sono inframmezzate da quelle di Anya, della madre di Maya, del ginecologo, dallo psichiatra che ci portano, ognuna nel loro mondo. E questa coralità che non si sovrappone ma rimane incalzante e lirica è propria dei bravi scrittori, quali sono gli autori.
Il romanzo sfugge a qualunque genere entrando in una sola categoria: quello delle cose lette che non dimentichi e che ti seguono come ombre attaccate all’anima.
Bellissimo.