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Tag Archives: orrore

ilacampagna3

La fragilità dei narcisi è consapevolezza inconsapevole caduta silenziosa coscienza incosciente desiderare fino alla morte l’amore senza darlo e fa paura tutto questo sentire e non sentire mai nel buio profondo una caverna di spettri incontrare qualcuno che non ti sia specchio sarebbe un massacro c’è sempre stato un massacro in ogni storia come camminare all’alba sulla battigia e guardarsi riflessi nelle onde ombre di bruma e sguardi stravolti dal gelo ci siamo specchiati così a fondo da esserci lasciati divorare dal mare è musica melanconica sinfonia di tenebra armonia cancellata prossimità del vuoto salto infinito non aver paura di morire ma solo di non esistere come la morte fosse il suggello l’espiazione ultima della colpa d’essere incapaci di amare altro che un riflesso e non saper vivere senza tutto eternamente torna follia nietzscheiana al punto di partenza camminavamo spettrali sul limitare del mare paure primordiali si specchiavano nel buio ingoiato dalla luce eravamo così belli sotto quella luce mezza luna mezza aurora epifanie d’esistenza crepuscolare sapienza dei piedi sabbia umida e fredda rabbrividire nella bora e abbracciarsi prima dell’ultimo salto tornare a casa e sentirsi il cuore in gola illudersi di aver amato per un’ora dimenticarsi il sapore e il vissuto i corpi avvinghiati all’ombra del fuoco restarsene a cantare stornelli non sense e rinnegare ogni cosa per riviverla con il primo chiunquealtro che si fosse presentato alla fine si può invidiare tutto l’amore del mondo tutta la gloria la determinazione quando basta un telefono che squilla a vuoto per non alzarsi dal letto si può invidiare a morte chi ha finito l’università messo su famiglia o è partito per viaggi umanitari avendo qualcosa da raccontare qualcosa che non sia specchio infranto tu invece senza vetro e senza pelle ancora mi parli della vita per starmi accanto devi scendere nel pozzo e danzare in mezzo ai morti ma io non so mica quanta forza hai dentro ho bisogno di essere vinta battuta in battaglia scagliata oltre le fondamenta del muro invisibile prima della battaglia guarda nel fondo della luna ci saranno gli occhi miei scacciami se sei in tempo trafiggimi o salvami una volta per tutte da questo abisso di specchi sbrecciati una sola volta una sola morte affinché non sia vana l’attesa e la luce che a quest’ora s’irradia sulla battigia il colore del cielo rovente e azzurrato senza luogo senza senso come fosse eterno il suono della risacca che inganna le ore come fosse di carne il sapore del mattino che il mare dissipa al vento.

© i. p.

Immagine

Ascolto i rumori della strada invadono e mi lascio invadere senza tuttavia lasciarmi scalfire fuori ci sono gli zingari un uomo che vende rose e un altro che rovista nel cassonetto poggio le mani sul vetro lascio i segni delle mie dita arriva una voce di donna il rombo di un’auto in lontananza poi c’è il vento e disegno serpenti con le mani su quel vetro poi le porto a me stringo la carotide fino a farmi mancare l’aria non c’è nulla che somigli a un attacco di panico l’ansia è fisica quello che io provo ha a che fare con il pensiero anche se il corpo dovrebbe essere tutt’uno col pensiero io li vivo dissociati di fondo anche il corpo mio non sta bene la mia testa è piena di rimbombi ma sono le cose che penso a sbattermi in faccia un baratro è l’eterno ritorno dell’identico penso che da questo non si possa guarire non si può guarire da se stessi io posso soltanto tapparmi le orecchie sbatto contro un caleidoscopio dai mille volti e sono sempre io e posso fingere di non vedere dicevo non sono sicura che questa realtà sia vera lui diceva prima di te se l’è chiesto anche Cartesio dicevo non è solo una questione teorica diceva studia leggi impara non prendere droghe col tuo carattere le droghe slatentizzano ma quel che non diceva era cosa queste droghe dovessero slatentizzare tutto ciò che può divenire in atto già esiste in potenza io volevo vedere fino a che punto si può arrivare lanciandosi nel vuoto lo facevo e cadevo ogni volta non toccavo mai fondo ma cadevo e cadevo e cadevo e tutto si ripeteva in un incubo di demenza ascolto la voce di mio padre nel passato dice non esagerare i sintomi ma io NON LI HO MAI ESAGERATI erano veri io ho soffocato quelle ossessioni perché loro mi obbligavano a smettere ho sotterrato il vuoto in un’illusione di pienezza ho sotterrato l’assenza in significati impropri io dicevo di essere chiusa in un labirinto senza via d’uscita e tutti lì a dirmi non esagerare tu stai benissimo vuoi vedere cos’è la pazzia? vuoi vederla? questo è la pazzia mi mostrava gente del centro di igiene mentale gente per lo più sformata ma non vedevo in loro quella pazzia che lui diceva io non li distinguevo dalla gente normale io non comprendevo loro esattamente come non comprendevo i normali per me l’altro era sempre la stessa assurdità mi sentivo chiusa in un labirinto di voci che non significano nulla mi sentivo falsa e sulla finzione basavo il mio stare al mondo fingi di stare bene fingi di essere felice fingi di comprendere le parole fingi di essere intelligente fingi di essere bella fingi di provare emozioni fingi di essere viva.

Io volevo andare incontro al mio baratro cercavo di capire dove si potesse arrivare cercavo soltanto la mia verità e invece poi mi veniva quel dubbio di non stare nel mondo di non stare parlando con nessuno la domenica mattina dopo le feste mi chiudevo nel letto era una scatola una prigione non si poteva dormire usavo il computer e giocavo con le false identità del mostro che per anni mi ha ingannata – non era un vero mostro era solo la mia nemesi o una parte di me – giocavo mentre fumavo sigarette a seni scoperti masturbandomi per finta davanti a una webcam m’illudevo di dominare dal basso con il corpo il mio corpo al centro e fuori lui a spiarmi spiarmi spiarmi credeva di fottermi e io fottevo lui o ci fottevamo entrambi insieme era quasi divertente quel fottersi l’un l’altro ci saremmo uccisi era romantico uccidersi per un gioco erotico dovevo indossare le maschere della banalità per non subire trattamenti sanitari obbligatori questa banalità ora è diventata parte di me ma non voglio viverla in prima persona non voglio appartenerle inficia il mio lavoro mi impone la stessa identica angoscia che mi imponeva la follia così mi sento sospesa tra l’abisso e il pavimento su cui poggio i piedi che non è un vero baratro ma solo un inutile parquet così mi sento inautentica così mi sento falsa così mi sento inadatta a vivere perché parlo di altro per distrarmi da quel baratro ma quel baratro è la mia verità e si rivolta dentro all’infinito impedendomi di guardare fuori.

La mia prima insegnante di yoga diceva non stai morendo non sei sotto le bombe mangi tre volte al giorno hai genitori in vita e ti vogliono bene nessuno ti ha amputato un arto che cos’è questo inferno che descrivi? non esiste.

Nessuno poteva guardare dentro e io ne avevo orrore.

Lui non può guardare dentro quel baratro per quanto possa amarmi lui lì dentro non può entrare nessuno può solo io posso guardarci e poi caderci caderci caderci perché non ti è mai consentito di guardare senza precipitare quando sono troppo dentro non vedo più il fuori ci sarebbe un modo per stare bene ma anche stare bene mi fa male mi fa sentire vuota e priva di identità mi fa sentire simile a tutti mi fa sentire di non poter parlare che di fatti ma i fatti sono ininfluenti i fatti sono Maya la creta che c’è dentro è Atma le azioni non contano le violenze subite gli schiaffi le parole non hanno significato quel che conta è quell’Atma quell’Atma che c’è dentro eppure anche fuori ma nessuno lo vede non lo vedi se non vuoi morire e se lo vedi vivi morto altro che nirvana è un nirvana rovesciato quel che io vivo mi sta mangiando pezzo dopo pezzo quanto ancora riuscirò a fingere?

Non posso dirlo a nessuno perché tutti scapperebbero tutti scappano dal dolore solo io sembro volermici ficcare dentro apposta è un gioco pericoloso lo faccio troppo spesso per non restarne mutilata.

Noi non eravamo che carne segregata in polvere temevo di scoprire di dover rinunciare alle mie notti era una mano che mi afferrava le tempie e spingeva giù il corpo fino a rovesciarlo c’era anya con me mi consigliava di ridere c’era anya con me in quelle notti scavalcavamo i significati c’era l’odore chimico di pelle sudata non avrei voluto ascoltare non avrei voluto sentirmi dire che non potevo farlo anya non mi avrebbe lasciata non potevo confessarle di aver visto di aver sentito la prima volta che accedi a quella cosa non puoi darle nome né significato alcuno non riesci a percepire altro c’era un uomo alle mie spalle mi sarebbe piaciuto afferrarlo ma ogni volta io mi voltavo e non c’era nessuno eppure sentivo il suo fiato mi voltavo era un mostro di carta dalle forme scheletriche io non sapevo riconoscerne i contorni avrei potuto ridere per le stesse ossessioni per cui piangevo era questa evanescenza a smembrarmi la certezza che non esistessero i luoghi l’impossibilità di guardarli quando c’era anya lei era la mia certezza poi tutto cambiava i volti assumevano sembianze sconosciute i luoghi divenivano altro quelle campagne erano dettagli di specchi frantumati cercavo la mano sentirmi afferrata cercavo nei libri di herman hesse il significato dei miei vissuti raccontavo a mio padre i miei timori suggestione diceva come nelle sedute spiritiche se vedi il fantasma è solo per suggestione e se lo vedono tutti? suggestione collettiva qui invece nessuno si suggestionava io vedevo morire le menti non riuscivo a distinguere i corpi le persone diventavano sagome confuse ombre erano morti ma erano ancora in vita facevano tutti lo stesso odore di muffa mi chiedevo se a un osservatore esterno anch’io apparissi allo stesso modo mi guardavo allo specchio a casa e mi trovavo bellissima e tutta la notte ci avevo dato giù con alcol e altro buttandomi in mischie di corpi tutte le notti a sentirmi tra le cosce pezzi di carne sconosciuti eppure avevo l’impressione che fosse sempre la stessa persona il primo uomo l’ultimo uomo quella donna l’unica donna mia sorella mia gemella monozigota separata alla nascita tornavo a casa e man mano tutto sfioriva non sapevo riconoscere i sapori tra le labbra avevo solo questo vuoto questo senso di eterna sete incolmabile mi chiudevo nei libri di filosofia rimanete fratelli fedeli al corpo e alla terra poiché è l’unica cosa di cui si possa dispensar certezza ascoltavo the end imparando a memoria i movimenti delle sue labbra il primo uomo l’ultimo uomo nello specchio c’era un volto e poi nulla ero circondata da presenze e a volte le pareti ridevano con la voce di mia madre pensavo che brutto scherzo mi stanno tirando andavo in bagno e mi guardavo mi guardavo diventavo orrenda i miei occhi si gonfiavano come rane e la pelle stingeva fino a colare via non m’importava di pesarmi perché io credevo solo a quel che vedevo e quel che vedevo era un mostro di grasso e rughe che a diciott’anni non sarebbe stato logico avere e sentivo sul corpo mio l’odore di quei corpi e per quanto mi lavassi e mi lavassi quell’odore mi entrava dentro era diventato un altro pezzo di pelle e sottopelle scavava ogni volta avevo paura di guardarmi allo specchio mi stringevo la carne tra le mani e stringevo e stringevo fino a lasciare segni rossi e viola su quei fianchi che avrei tantissimo tagliato mi sarei fatta mangiare a morsi da una belva e così trovavo numeri sconosciuti nella rubrica e chiamavo fingendo un’intimità di cui non mi credevo capace a mala pena ricordavo il nome di quelle persone eppure parlavo loro come fossero miei lo erano dicevo che fai? dicevo io mi annoio dicevo mi racconti un sogno? dicevo come t’immagini di scoparmi? dicevo non mi avrai mai dicevo e dicevo poi mi truccavo a dovere e scivolavo via di casa allora ero di nuovo bellissima avevo nel corpo una misterica sensualità mi fingevo innocente m’immaginavo vestita di nero in un paesaggio irlandese tutto di ghiaccio mi sentivo forte e invincibile scavalcavo le strade raggiungevo le cantine gli scarni monolocali incontravo l’uomo della telefonata e mi sembrava di non riuscire neppure a vederlo mantenevo tra le dita sigarette ciccavo sui pavimenti mi sedevo sui divani troppo stretti ero io qui e io dall’altra parte finché i corpi non mi mangiavano e mentre accadeva non riuscivo a sentirmi io chiedevo loro il dolore perché non sentivo nulla gridavo colpiscimi e c’erano mani a dilaniare la carne ero viva e morta credevo nel nirvana orgastico credevo di sparire tra le mani di chiunque un pezzo di me rideva l’altro gridava e allora dicevo alza la musica alza il volume voglio il volume altissimo voglio sentirti addosso colpiscimi musica e polvere chimica e mani e capelli e morsi e cosa realmente accadesse in quelle notti io non lo ricordo a volte entravo in una stanza incontravo un uomo e poi mi ritrovavo tra due tre quattro corpi a volte sparivo con un’amica e all’improvviso lei mi stava toccando tra le cosce ma era tutto così confuso un lungo sogno e i volti cambiavano c’erano almeno dieci persone in una e viceversa corri adesso corri alla fine dei giochi riuscivo solo a correre e mi sentivo orrenda con il trucco ormai sciolto e nessun mistero da custodire altrove mi sentivo altrove sempre e c’era quell’uomo a inseguirmi dietro di me i suoi passi rimbombavano attraversavo le strade dei borghi e nelle campagne sentivo l’ululato dei lupi erano solo cani tachicardica avvertivo punture di spillo nel torace c’era un negozio di dischi e una basilica c’era quella serranda mezza chiusa e la gente di paese che mi guardava e tutte le strade che mi guardavano e sentivo rompersi dentro il torace andare in mille pezzi quel ghiaccio che credevo di aver custodito salivo sui treni tremavo e non era solo panico il panico non dura così tanto tremavo come se mi rendessi conto di qualcosa di terribile non ero mai sicura di essere veramente lì dov’ero fissavo i campi di grano oltre i binari erano dipinti di van gogh m’infilavo le cuffie ascoltavo chemical brothers fissavo il dissolversi del grano nella musica ascoltavo i bassi lasciavo che coprissero le urla nello stomaco lasciavo che il mondo mi convincesse della sua pregnanza e poi sparivo ed era l’unico istante di gioia la sensazione di sparire nella musica era vera reale la sensazione che il corpo mio non ci fosse e tutto il resto intorno fosse bianco era il nulla e così stavo bene nel nulla poi il treno si fermava arrivavo a bari erano le otto del mattino i riflessi del sole addosso mi facevano sentire sporca e c’era quell’odore quel maledetto odore che non sapevo più a chi appartenesse e la pelle mia ancora faceva pieghe livide come se sotto ci fosse un’altra persona la stazione di bari di giorno era piena di tassisti e ubriaconi che mi avvicinavano e all’improvviso le loro voci mi facevano paura quando la musica finisce spegni la luce corri corri corri attraversa il sottopassaggio non parlare con nessuno non guardarli in faccia corri corri corri fino a casa mi mancava il respiro avevo rantoli ai polmoni corri corri corri fino alla fine salivo fissando la mia immagine nell’ascensore sentivo le crepe nella pelle una volta mio padre mi disse tu vivi all’inverso sei sempre nel prima e nel dopo e non sei mai qui non sei mai qui allora mi sembrò orribile mi accarezzò i capelli e pensai come faccio a parlarti se tu mi credi un’altra ma non dissi nulla eravamo su una panchina ma non so dove e lui proprio questo mi stava a ricordare che il presente è fatto di storie di persone di parole e di dettagli e io mi sforzavo in ogni modo di registrare questo presente queste storie questi dettagli questa realtà ma era come se qualcosa di più forte catturasse la mia attenzione c’era il sole ma tutto era coperto da uno strato di nebbia diceva che t’importa della morte quando lei c’è tu non ci sei non potevo credere a queste stronzate non potevo credere alla fine mi sembrava di vederla quella morte un caleidoscopio dove tutto ricomincia sempre identico e così dicevo io non riesco a vivere il presente non riesco ad ascoltare nessuno a registrare dettagli non me ne importa niente del luogo in cui siamo dei volti che incontro non me ne frega proprio niente io vedo sempre quel caleidoscopio io sento di esserci finita dentro e il naufragar m’è dolce in questo mar.

© i. p.

 

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Lettura affrontata violentemente e voracemente. Per me, questo libro non può che essere letto così, come una cicuta amarissima, ma di cui non puoi eludere il gusto, seppure sgradevole, e neppure il retrogusto, altrettanto pungente e persistente. La narrazione è precisa, tagliente. Bella. Feroce. Come può esserlo una donna, in via di “crescita”, soffocata da un ambiente familiare iperprotettivo, perfettamente collocato nella provincia, altrettanto soffocante e “piccola”. Quale migliore via di fuga di quella offerta da droghe e sesso?
La giovinezza offre prospettive di immortalità, ma non senza conseguenze. Lo capirà dopo non poche sofferenze, Stella. Sì, una stella in un firmamento nero, fatto di galassie non sempre scintillanti e limpide. Anzi. Il cielo della sue breve, ma intensa esistenza, è un magma viscido e melmoso. Gli uomini che ruotano intorno alla sua vita, sono ombre, senza spina dorsale. Nessuno escluso. Si sa, da sempre, che la donna, (ragazza, ancora) specialmente nei primi approcci con la vita “sociale” è molto più curiosa e coraggiosa dei rappresentanti del cosiddetto “sesso forte”. Molto più disposta a rischiare, osare, vivere.
Marco, dotato di fascino oscuro e maledetto, spesso piange. Ed é credibile, nella suo perversa confessione del suo bisogno di emozioni “forti”. Duro ma molle. La doppia narrazione, silenziosa e verbale di Stella, fa penetrare dentro le viscere della giovanissima protagonista.
Il viaggio è sconvolgente, ma vero. Epilogo degno di migliori noir o anche tragedia notturna. La liberazione dal Male è un taglio profondo. Ilaria lo affronta, per conto di Stella, con l’aiuto del grande Bataille e del suo “Erotismo”, in una fotografia cruda e lunare, con lunghe ombre che proiettano, in sovraimpressione, la figura di Justine, disegnata dal Maestro dell’ Erotismo e Perversione in successione spesso tanto drammatica, quanto poetica: De Sade. Grazie Ilaria.

 

 

© Melchiorre Carrara