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Monthly Archives: luglio 2012

Antonella Marino (critica d’arte, professoressa universitaria e giornalista), ha recensito “Fatti male” per La Repubblica:

 

(foto di Luigi Annibaldi)

C’è una cosa che vorrei dire alla gente, ovvero: perché sei qui? Perché stai facendo ciò che stai facendo e non altro? Ti sei mai guardato intorno? Cos’hai visto?

Ieri avevo paura, la paura di una bambina lasciata sola al buio. Ero in una piazza e avevo paura. Sono passati due anni, forse tre (devo averlo rimosso) dall’ultima volta in cui sono stata a L’acqua intesta, e l’ultima volta c’era Tricky dei Massive Attack, non so se mi spiego, mi sembra tutto così diverso. Mi guardo attorno e non riesco a togliermi di dosso quel desiderio di fuggire, non riconosco più i volti. Avverto un intoppo al livello della gola. Per la prima volta a Bari mi sento sola, ogni volta che sono qui è come tornare piccola, il corpo e la mente, come se nulla fosse cambiato.

C’è l’odore del sudore umano e l’odore della carne arrostita sulla brace. Sul palco un gruppo funky soul con due nigger che cantano da dio musica che non mi piace. Sono rigida come l’albero di una nave, che se lo muovi resta fisso ma se arriva una tormenta si spezza e cade in mare.

Incontro un amico che cantava in un gruppo Hardkore, lui era uno di quelli che ti guardavano sempre con sdegno, chiunque tu fossi, sempre pronto a mandarti male con qualche frase in un barese baritonale, pronunciata con il disprezzo nelle corde vocali e nel fondo degli occhi. Anche i suoi occhi sono cambiati, è gentile ma con una distanza di: ormai non fai più parte di questa realtà, o forse: ormai non facciamo più parte della realtà.

–          Ho visto il tuo libro in giro, come sta andando? – mi ha chiesto.

–          Va bene, alla Feltrinelli di Bari è finito due volte, però devo ancora iniziare a fare presentazioni e tutto…

–          Be’ se ci fanno un film, rimettiamo insieme i De Root per te.

Sorrido, ma è uno di quei sorrisi che velano inquietudine. Ho incontrato un altro amico, che parlava di luoghi di mare e poesie, del fatto che la poesia, il collettivismo e tutte queste belle cose, conquisteranno il mondo.

Mi piacerebbe crederti P., mi piacerebbe davvero, darei chissà cosa per credere ancora nel mondo e nella poesia. Ho bevuto una birra nonostante la birra mi faccia cagare. Poi sono passata a cose più pesanti.

Si parla di raggiungere o meno una festa in spiaggia, qualcuno ci va, io non ho più la testa per sbattermi per trovare improbabili passaggi alle due di notte. Ho cominciato a danzare anche se quella musica non è che mi faccia impazzire, ho lasciato perdere i preconcetti, mi sono detta che qualsiasi cosa fosse accaduta mi sarebbe andata bene.

Era come stare lì e stare da un’altra parte. Al terzo bicchiere mi sono sciolta e il corpo ha danzato senza sapere neanche cosa stesse danzando.

Finiamo al Ceringuito, un baretto in un porticciolo per barche a remi, caratteristico per l’odore di pesce ammuffito che si presenta sotto forma di vampate improvvise. Gente che si sposta in auto per andare alla festa e gente di trent’anni che dice di essere ormai troppo vecchia per certe cose. C’è quel senso di apatia generale, la crisi ha colpito anche i drogati. C’è una mancanza di entusiasmo di fondo, una mancanza di soldi, risorse, energie. A volte penso che l’unica cosa da fare per sopravvivere a questo schifo sia prendere il porto d’armi, andare per strada e cominciare a sparare, sparare, sparare su chiunque, tanto nessuno è innocente.

A tal proposito ho incontrato un mio amico che militava in gruppi di estrema sinistra e mi ha raccontato del 15 ottobre 2011 a Roma, gli ho chiesto perché la gente si fosse messa a distruggere cassonetti, negozi, auto di altra gente come loro, che non sa se a fine mese ci arriverà o no.

Mentre chiudeva del tabacco tra due cartine, mi ha detto cose che non saprei ripetere. Le persone stanno esaurite, nessuno ne può più, qualcosa del genere.

Lui è ancora bello come sei anni fa, quando ci conoscemmo in un posto occupato che ora non esiste più. Gli anfibi ai piedi e i capelli ricci, gli occhi verdi alla Jim Morrison.

Siamo tutti stanchi di qualcosa anche se non sappiamo più di cosa. C’è una morte lenta che ci abbatte ogni giorno. A volte invidio chi riesce ancora a credere in qualcosa, io non ho che frammenti di vita passata e futura ma non esiste futuro, non esiste presente, vedo solo il mare con questa puzza di pesce vecchio e alga tossica. E guardo le onde nere tra gambe e piedi di persone che non credo di conoscere più o di aver mai conosciuto.

Un ragazzo si avvicina a noi, dice che scrivo troppo bene, che sta leggendo Fatti male, dice che legge il mio blog e sono una che spacca.

Oggi non ho voce, non mi bastano le risposte, voglio indietro un futuro che non ho mai avuto.

Mi ritrovo dietro una bicicletta in corsa, in botta di farmaci del secolo scorso. L’aria pesa quarantacinque gradi e questo vento che mi scorre addosso è una rivelazione.

Mi ritrovo in case con poster di Exploited  e Doors ad ascoltare  Smashing Pumpkins, con la testa poggiata al muro e uno sguardo su un fuori che non si vede perché la serranda è abbassata.

Mi ritrovo su balconi di Madonnella, quelle case dei primi del Novecento, ancora più in botta di droghe del secolo scorso, a parlare del massacro alla Diaz con tre ragazzi e la proprietaria di casa.

Mi ritrovo a chiedermi perché sono viva. Perché si vive. Perché si muore. E dove sono le differenze. Mentre un’alba elettrica squarcia i vetri delle finestre dei palazzi di fronte e noi, come in un film di Nanni Moretti, non vediamo mai sorgere il sole, perché aspettiamo dal lato sbagliato.

Mi ritrovo tra riso basmati e peli di gatto. Saluto tutti e vado via, a prendere un autobus che spero mi faccia dormire mille anni.

 

 

 

© Ilaria Palomba

(foto di Luigi Annibaldi)

 

Io volevo solo consegnare un libro alla Rai e invece mi sono trovata coinvolta in una situazione postnucleare.

Il tutto è cominciato alle otto e mezzo di mattina quando, con la forma del cuscino stampata sulla guancia sinistra, giungo alla fermata Colombo-Accademia degli Agiati. Attendo l’arrivo del 30 insieme a delle adorabili vecchiette. I primi dieci minuti trascorrono senza troppi problemi: il sole splende alto sulle nostre teste illuminandole di giallo o bianco, a seconda dei casi. Dopo i primi dieci minuti ci si inizia a guardare intorno, partono i primi sospiri, le prime perplessità non dichiarate, i primi sguardi seccati. Dopo venti muniti il sole non è già più un buon compagno, il sudore inizia a farti venire l’orticaria sotto le ascelle e le vecchiette cominciano ad aumentare. Passa il primo autobus e si accende negli astanti una speranza silenziosa che si manifesta in un ripetuto trattenere il fiato e chiedere qui e là: che numero è? È il 30? È il 714? Le vecchiette ringalluzziscono e te le vedi che quasi corrono verso l’autobus per accertarsi della sua giustezza. Purtroppo però non è il 30. È il primo di una lunga serie di 714 che passano a intermittenza e, si sa, l’autobus che passa e quello su cui devi salire non sono mai lo stesso.

Qualcuno inizia a domandare se c’è sciopero dei mezzi, qualcun altro risponde che no, non c’è nessuno sciopero, siamo solo a Roma nel mese di Luglio e per di più hanno anche aumentato il prezzo dei biglietti.

Già inizio a prefigurarmi quella che può essere la folla presente e sudante sull’atteso 30. In effetti appena arriva più che un autobus sembra una scatola di sardine compresse, il guaio è che tra quelle sardine da un momento all’altro ci sono anch’io…

(Continua… sulla Rivista “O”)

 

 

 

 

© Ilaria Palomba

Non voglio illudermi di un amore che muore, come il femminile, muore lentamente come poesie che nessuno osa più pronunciare. Ci inchiodiamo ai gesti, ai sotterfugi, alle risate dissonanti. A ciò che non ci appartiene. Tutto il regno è allagato, Ofelia muore, come l’amore, nuovo tabù dell’occidente. Si vive di marketing oggi, comunicazione, autovalorizzazione. Ma dov’è l’amore? Dov’è la vita? Dov’è l’arte?
Ofelia muore guardando una stella. Ciò che dovrebbe guidarci verso il sapere ha cambiato posto. Amleto ha paura, la paura dei mostri dell’infanzia. Amleto si prostra ai piedi di una madre che ha ormai ingoiato il suo amore come il dio Kronos fagocitò i suoi figli dando vita all’inganno chiamato tempo, del quale tutti soffriamo.
Cerco una bellezza impossibile, un ricordo evanescente, cerco al Cineteatro uno squarcio di verità, cerco tra gli occhi di Antonio, Caterina, Tessa, Francesco, Massimiliano, una forma d’amore che il mondo mi nega ogni giorno.
È ancora possibile la rivoluzione? Quale rivoluzione?
Ci legano braccia e piedi, c’incatenano a un’obsolescenza che nessuno ha chiesto. C’inchiodano a una morte maledettamente piacevole e insidiosa che di notte in notte fa visita ai nostri sogni. Ma il regno è allagato e Ofelia muore.
La rivoluzione è ammettere di avere paura, la rivoluzione è il coraggio di guardare in faccia la realtà. La rivoluzione è la trasfigurazione che questi artisti ci fanno vivere, fin dentro al corpo.
Anch’io ho paura di perdere la strada o di non averne mai seguito una, anch’io ho paura di bruciare nel rimpianto, di smettere di desiderare, appiattirmi a una verità precostituita, smettere di scrivere, piegarmi ai gioghi del potere, lasciarmi schiacciare da nomi e classifiche. Anch’io ho paura, tremo.
E mi sveglio poco per volta, come voleva Aristotele, una catarsi giunge fino al fondo del mio corpo per salvarmi dall’abbandono.
Si tratta di una Performazione, sullo stesso tema di quella precedentemente recensita ma dagli effetti completamente diversi.
Non sono brava a fare cronache ma questo è il mio vissuto, le mie lacrime, la mia pancia. Lo lascio qui, prima che venga cancellato dall’obsolescenza del vivere. Prima che arrivino nomi, date e classifiche a portarmi via dall’incanto nel quale ancora sono.