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Monthly Archives: agosto 2013

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Vermi. Vermi? Vermi. Insetti. Bastardi. Carogne. E questa volta non sto parlando degli esseri umani. Sono stata invasa. Da diversi giorni sul mio copriletto rosso allo scoccare della mezzanotte camminano insetti immondi: una via di mezzo tra mosche, formiche e scarafaggi, hanno delle alette trasparenti e delle zampe che sembrano peli di scarafaggio. Io adoro Burroughs e Kafka ma non vorrei mai trovarmi in nessuna delle loro situazioni.

La prima volta che ne ho scorto un paio ho urlato. La seconda li ho schiacciati. La terza li ho sognati. La quarta li ho sentiti camminare sul mio corpo nudo e penetrare nei miei orifizi. La quinta volta ho telefonato al mio ragazzo urlando e lui mi ha consigliato di andare a comprare una trappola per formiche. Ci siamo dibattuti parecchio su come dire trappola per formiche: place pour les fourmies? Maison pour les fourmies? Maison suona molto: scusi vorrei una maison in stile coloniale. È per lei e la sua famiglia? No, per le mie formiche, che non sono formiche, sono mostri famelici usciti fuori dall’inferno.

La mia casa parigina è un portale per l’inferno.

Scusi mi dà una trappola per zombie? Scusi? Sì. Vorrei un’acchiapparitornanti. Cosa? Non ce l’ha? Vada a farsi fottere. Spero che le crescano piante rampicanti nel deretano e che brulichino di scarafaggi.

Tornata a casa piazzo la trappola per formiche. Loro non sono formiche. Perciò non muoiono. Telefono a mia madre in lacrime e lei dice di aspirare i mostri. Prendo l’aspirapolvere, la stacco dalla base e inizio a inglobare al suo interno tutti quei bastardi.

C’è qualcosa di peggio dell’umano: l’immondo.

Vado a bere un bicchiere d’acqua e a lavarmi i denti prima di dormire, torno sul letto e trovo due cazzo di vermi. Attacco l’aspirapolvere, li risucchio, li spiaccico nei fazzoletti, li ammazzo, li brucio con l’accendino. Vado ancora in bagno per infilarmi il pigiama, torno in stanza e ne trovo dieci, venti, trenta. Cadono dal soffitto, si arrampicano sulle lenzuola, camminano sul mio cazzo di cuscino. Sono brutti, sporchi, neri, con queste schifose alette che poi perdono e lasciano tra le mie lenzuola. Sono venuti direttamente dall’inferno. Dio, perché vuoi punirmi? Quanti uomini mi mandano le macumbe perché non gliel’ho data, Dio, perdonami, ti prego, so che sono stata un’infame bastarda, ma, ti prego, perdonami, io cerco solo di avere rispetto di me stessa, ora, in passato mi sono fatta fin troppo mangiare dagli uomini. Ma Dio risponde che è arrivato il momento per me di farmi mangiare dai vermi. Troppe volte hai paragonato gli esseri umani a dei vermi, dice, e adesso ti tocca farti divorare dai vermi, chissà se poi comprenderai la differenza tra le due specie.

Dio ha il mio volto e mi sorride nello specchio. Sta cercando di uccidermi. Da sempre.

Scappo in bagno con il telefono in mano e telefono a mia madre. Tremo. Sono immobile. Piango.

«Mamma fai qualcosa! Ti prego! Non posso muovermi! C’è l’invasione! Io ora esco e cerco un albergo!»

«’Che sei scema? È tardi. Non uscire per nessun motivo al mondo» fa lei «vai di là e scacciali, sono due moscerini».

Io andrei volentieri di là se solo non avessi questo dolore al petto che s’irradia nel braccio sinistro come elettricità. Dico parole sconnesse. Non riesco a parlare. L’inquilino della porta accanto sbatte i pugni contro il muro e grida di fare silenzio. Io piango. Continuo a ripetere la parola aiutatemi in modo ossessivo. Credo di averla ripetuta millequattrocentosei volte. Le ho contate. La telefonata schizofrenica con mia madre dura tre ore. Poi capisco, comprendo ogni cosa. Eureka. Le sbatto il telefono in faccia, la mando a fare in culo, prendo le chiavi ed esco. Passo accanto al letto e vedo un tappeto di cosi neri viscidi e sporchi che salgono, scendono, cadono dal soffitto, lasciano le loro alette di merda sul mio letto. Scappo.

Una volta in strada tiro un sospiro di sollievo. Ora sì che si ragiona. Fa freddo, ho la nausea e sono le tre di notte.

Raggiungo l’albergo più vicino, su Rue Vallette ma è chiuso. Telefono al mio ragazzo, lo sveglio. Lui domani mattina alle 8 ha lezione in una scuola media ma in questo momento non me ne frega niente.

«Perché cazzo di motivo non sei qui con me? cazzo!»

Gli grido cose al telefono e lui cerca di tranquillizzarmi. Entro in un hotel, in lacrime, chiedo se hanno una stanza, dicono di no. Entro in un secondo hotel: tutto pieno. Entro in un terzo, un quarto, un quinto, al sesto hotel tutto pieno dico di avvisare la polizia perché non so stasera che può succedermi. Scorgo nel viso arabo dell’albergatore una nota di sgomento che gli curva, come una piaga, il mento. Guardo meglio: è un verme.

L’albergatore mi dà un libricino dove ci sono tutti gli hotel di Parigi, mi dice di chiamare. Io tremo, esco, ringrazio, sentenzio in barese. Richiamo il mio ragazzo e butto il libretto per terra.

«Non c’è la polizia vicino casa tua?» fa lui.

Eureka bis. Vado dalla polizia. Loro hanno il dovere di aiutarmi.

«Fammi sapere, amore, non sto tranquillo se non mi dici come va a finire ‘sta storia».

Io voglio che lui sia qui adesso.

Arrivo davanti alla centrale di polizia. Vedo attraverso un vetro un uomo al computer. Busso. Niente. Busso due volte. Alla terza bussata si volta e mi dice, distratto, di fare il giro. Sto tre ore ingessata come una pietra e non so dove andare. Poi capisco e faccio il giro dell’isolato. C’è un custode, parlo con lui, gli spiego tutto. Mi sento un’imbecille: la gente va dalla polizia per denunciare furti, scomparse, violenze, omicidi. E io: no, sono stata derubata, confiscata, violentata e uccisa dagli scarafaggi. No, sa, è che io sono un’amante di Burroughs, è per questo, per me loro hanno un progetto panottico di sterminio della razza mestessa.

Lo sbirro impietosito mi fa entrare in centrale, mi dice di chiedere se hanno un posto per farmi dormire lì. Entro. C’è una tizia losca, nera con i capelli corti arancioni, un cadavere di donna, eroinomane, credo, si trascina per la stanza. Ha gli occhi a palla e una vita larga quanto un mio braccio. Sembra una che è stata violentata. Vado a spiegare tutto agli sbirri. Mi dicono di aspettare.

«Ha delle armi?» domanda uno.

Se avessi avuto delle armi, secondo te, sarei scappata via di casa per dei fottuti insetti di merda?

Sto zitta. Ingoio la rabbia che mi cresce dalle viscere.

«Madame? Vous avez une cigarette?» mi domanda il cadavere.

Le do la sigaretta. Mi chiede di accendergliela. Gliel’accendo. Gli sbirri sentono puzza di fumo e iniziano a urlare. Una sbirra esce fuori dal gabbiotto e dice al cadavere di non rompere i coglioni.

Il cadavere si stende sulla panca dicendo che deve dormire. Si stende con movimenti da eroinomane.

«Madame» mi fa ancora «vous mes pourrais aider?»

Vuole che le slacci un bottone del vestito, le dà fastidio.

«Sei sicura? Non è che poi ti cazziano?» le chiedo.

Fa cenno che è tutto tranquillo. Mi alzo dalla mia panca, metto le dita sulla chiusura lampo del cadavere, sento le ossa della sua schiena, quasi senza pelle, solo ossa. Allento la lampo. Il cadavere si spoglia. Resta con quelle due mammelle strette e aggrinzite di fuori. Sembra un dipinto di Schiele. Mi fa pena. Compassione. Non so nulla di lei ma vorrei poter fare qualcosa. In realtà forse lei non si accorge neanche di soffrire, la disperazione a volte non la senti, quando è troppa, diventa routine, neanche lo sai più di essere disperato. Il cadavere denudato viene sgridato, preso, ammanettato e chiuso da qualche parte. Ne carpisco le grida.

Un uomo mi dice che la stanza per me è pronta. Lo seguo lungo un corridoio. Mi mostra una cella. Grumi di polvere a terra un materasso di plastica gialla lercio buttato dentro un incavo quadrato nel muro che forse loro osano definire panca. Un cesso e una doccia senza porta. Chiudo la porta alle mie spalle. Mi infilo il giubbotto con tanto di cappuccio e mi stendo sul lercio del materasso. Dall’altra stanza provengono grida.

C’è una fessura nella parete verde da cui escono dei fili elettrici, vi scorgo qualcosa di viscido, non oso controllare cosa sia. Ho freddo. Tremo. Non dormo. Parlo al telefono con il mio ragazzo. Non piango. Parlo con lui fino alle sei di mattina. Poi mi addormento. Alle sette mi svegliano. Fuori da quella fessura c’è una creatura nera vermiforme che striscia verso di me. Mi alzo di scatto. Ho freddo, una faccia pallida con occhiaia tipo bucce di mela marcia, i capelli di una fuoriuscita da manicomio, lo sguardo di una serial killer. Esco. Ho freddo. Fisso la gente come se volessi ucciderla. Vado in un bar, ordino un cappuccino che fa schifo e per giunta ho beccato anche l’unico bar parigino che ha anche i croissant che fanno schifo.

Vado in agenzia, quella che gestisce la casa in cui risiedevo fino a ieri, quella che ho gentilmente lasciato ai vermi. Vado in agenzia e dico a quelle due anatroccole idiote che ho bisogno di un’altra sistemazione, che la cosa è diventata grave, che sono passata ieri ma nessuno ha voluto ascoltarmi, era tardi e dovevano chiudere. Dicono che loro non possono fare niente.

«Stanotte ho dormito dalla polizia, e se voi non risolvete il mio problema, loro potranno fare molto» dico.

Aspetto il capo dell’agenzia, nel frattempo riesco a trovare un albergo che ha una stanza libera.

Vado con il capo dell’agenzia a prendere le cose necessarie alla sopravvivenza di stanotte. Lui entra in casa e vede lo schifo di tappeto di vermi sul letto. Trattengo la nausea.

Lui dice che sono formiche. Vuole fare la disinfestazione per le formiche. Quelle non sono formiche, cazzo, non sono così brutte e grosse le formiche.

Torno in albergo. Mi faccio una doccia. Finalmente crollo su un letto pulito. Socchiudo gli occhi, sto per dormire quando sento qualcosa camminarmi lungo la gamba destra.

© Ilaria Palomba
Foto di Luigi Annibaldi