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Monthly Archives: gennaio 2014

portasegreta

Quello di Paolo Battista è un urlo ginsbergiano. In “Porta Segreta” (Edizioni Progetto Cultura), c’è un paesaggio allucinatorio di una Roma postmoderna. Una poetica che alla beat generation rimanda soprattutto per stile e struttura, volta a far coincidere poesia, prosa, scrittura automatica e poema. Non in versi ma in un gioco visivo di spazi, respiri e flusso di parole, le poesie di Battista, possono essere lette ciascuna in almeno tre modi. Un uso anarchico della punteggiatura e delle maiuscole ne accentuano l’entità postmoderna.

Porta Segreta” è il luogo che emerge da questo ritratto neorealista e assolutamente beat che miscela con fervore i luoghi della realtà «un carnaio di corpi smunti pronti a invadere i sobborghi: roma… saracinesche abbassate, l’eco di uno stupido programma generalista, urina che scorre», con quelli di un’interiorità malata, ossessionata, tossica, in cui l’amore figura come vittima sacrificale «lungo la stazione: porte scorrevoli, croci ombre poveri diavoli, tossici piegati stremati ai bordi della strada, amore sgraziato stremato o spiaccicato sul marciapiede come un morto ammazzato».

C’è la lotta contro un reale troppo minaccioso per non essere schivato bramando «la molle sonnolenza di oliosi papaveri selvatici». Riprende poi tematiche di stampo stirneriano come l’atavica lotta tra l’individuo e una società non più in grado di comprenderlo e rifiuta i compromessi: «ci deve pur essere una via d’uscita ma non parlatemi di compromessi!»

Una prosa maledetta in cui è costante il richiamo al Rimbaud di “Una stagione in inferno”, si scontra poi con l’ineluttabile degrado del contemporaneo occidentale «bamboline anestetizzate. improbabili fatine. e non ci accorgiamo di essere prigionieri della modernità!», con costanti rimandi ai sobborghi, le periferie, i luoghi tossici e osceni che diventano altro nel delirio allucinatorio da cannabionoidi e oppiacei. «Grandi nuvole con le mammelle di una mucca e tori dalle corna di ceralacca si confondono alla nebbia polverosa che impregna la cima di sette alberi in sequenza. Il cielo si sforma… così cado nel rosso cremisi di allucinazioni da hashish». Della poetica beat recupera l’automatismo di una scrittura priva di freni ma ne rifiuta la mistica. Non ci sono sconti, né mistificazioni, nei luoghi del degrado, ma solo corpi corrosi dall’abuso di sé, negazione di un presente dove la lotta non è più possibile. Quella di Paolo Battista è la testimonianza di un’epoca priva di ideologiche illusioni. Un mondo che è di per sé orrorifico e melanconico «vedo animarsi la città di agonizzanti barboni, impiegatucci da strapazzo, immigrati di cartone, e l’alba inghiottita ormai dal grigiume illogico della metropoli è un calendario privo di stagioni».

Nel complesso il libro è uno sguardo diverso su un sociale che cade a pezzi. La prosa ritmata e musicale colpisce e trascina, nonostante la sua complessità.

Paolo Battista da un paio d’anni dirige la Rivista Indipendente “Pastiche”. Fa parte del gruppo artistico-letterario I Cardiopatici. Ha pubblicato già due libri di Poesie “Canti urbani” e “Inferno di Contorno”. Ha scritto un romanzo sperimentale, con un impianto diaristico sulla tossicodipendenza a Roma (ancora inedito), in cui c’è una forte ricerca linguistica, ottima caratterizzazione dei personaggi, ai dialoghi in un romanesco pasoliniano si alternano flussi di coscienza del protagonista non dissimili da alcune liriche presenti in Porta Segreta.

Spesso si teme l’indomabile potenza della verità, non si riconosce la novità di un certo modo di scrivere che sempre più sta prendendo piede tra le nuove generazioni, si chiudono gli occhi o si finge di chiuderli dinanzi a quelle che potrebbero essere le nuove avanguardie. C’è da chiedersi per quale motivo. Credo abbia a che fare con il rischio che la società letteraria italiana non vuole assumersi. Il rischio di dare spazio a nuove voci, in un momento in cui, se si escludono i bestseller e la letteratura patinata, nessuno sembra più interessato alla lettura. Il rischio di vedere un certo tipo di realtà estreme e senza speranza, che tuttavia esistono e continueranno a esistere anche se i benpensanti chiudono gli occhi. Il rischio che il nuovo prenda piede e soppianti l’edulcorato, e certamente meno coraggioso, panorama letterario cui siamo fin troppo abituati.

 

© Ilaria Palomba

l'ultimoviaggio

 

foto: Stefano Borsini

performance: “L’ultimo viaggio” di Ilaria Palomba, con Ilaria Palomba, Olivia Balzar, Luigi Annibaldi

maschera

Cassandra. Il nome di chi vede e non vuole. Vuole e non dice. Dice e non è creduto. Vorrei essere cieca, muta e sorda. Prevedevo incendi. Stanca di fare paragoni. Io, lui, l’altra. I viaggi in treno, vai e vieni, vai e vieni, vai e vieni. I corpi avvinghiati. La stanza dei segreti. Di che colore? Bianca. Ma anche nera. Aveva l’odore della calce. Di case in costruzione. Di operai. Di non finito. Infinito.
Tornavo a Metropoli. Mi aspettava Ermes. Io ed Ermes non potevamo non incollarci. Cotone e lana.
Usare gli stessi cappotti. Gli stessi aforismi inutili. Io ed Ermes. Ermes e io.
Ti aspetterò anche tutta la vita, disse.
Ma io non sto morendo.
Chi è costui? Dai, dillo. Dai, dimmi, cosa vuole. Da te.
Costui si chiamava Dioniso. Non sapeva non guardarmi con una promessa. Divorami. Forse avrei dovuto evitare di giocare. Con i coltelli. I coltelli. Amavo tagliuzzarmi le braccia. Sangue. Odore di brina. Burro cremisi. Mattonelle divelte.
Dioniso aveva una stanza-castello. Eravamo bianchi e neri. Nello specchio. Pensava di guardarsi mentre mi guardava. Con quanti occhi? Il trucco colava. Lacrime. Le mani sui seni. Le dita nei jeans. Sperma. Dioniso voleva sposarmi. Avere un figlio. Ma non ero l’unica. Non ero nulla.
La ragazza di Dioniso aveva la bellezza delle promesse non mantenute. Labbra carnose. Un misterico sguardo di tenebra. Forse neppure sapeva. Di me.
Con Ermes mangiavamo panini sul ponte bianco leggendo Goethe. Ci sembrava Berlino. Eravamo a Ostiense. Con Ermes andavamo a ballare come ragazzini alla soglia dei trenta (io) e dei quaranta (lui). Con Ermes assumevamo polveri inquiete. Bianche e nere. Talvolta viola. Eccitanti. Ipnoinducenti. Oppiacei. Anestetici per elefanti. Con Ermes io ero una bambina borderline. Lui un principe.
Dioniso non ne aveva bisogno. Gli bastava pronunciare quella parola: Mia. E la stanza bianca e nera si faceva vitrea, sfolgorante, fosforescente. Un caleidoscopio di cromie. Dioniso trascorreva i pomeriggi fuori e quando tornava voleva da me qualcosa che somigliasse a una famiglia. Poi spariva al telefono con la donna tenebrosa e bellissima. Che io non sarò mai. Che io non sarò mai. Che io non sarò mai.
Io non ero più Cassandra. Ero solo e sempre: Mia. Euforia. Estasi. Follia. Avevamo le mani segnate dalle lancette. Aspettavamo di cancellarci. I corpi. Le menti. Via tutti gli organi. Restava solo una rete. Nera. Sulla pelle. Bianca. Gabbia.
Apri le gambe, aprile bene. Infilaci le dita. Più dentro. Più dentro. Più dentro. Sei Mia.
Tua.
Sei Mia.
Tua.
Mettiti di spalle. E chiudi gli occhi. Piegati di più. Di più. Di più.
Amen.
Il dolore mi univa a tutte le cose. Una preghiera silenziosa. Una sacra dissacrazione. Dioniso e la baccante.
Prevedevo fiamme. Nessuno mi credette. Cassandra.
Ermes non voleva sposarmi. Ermes diceva gli bastasse un sorriso. Ermes non aveva un’altra. Perché non lo amavo? Non lo amavo.
Cosa significa? Scomponi la parola. A-mors. Senza morte.
A cosa serve un cuore?
Ho fame.
Ermes mi portava a cena. Chardonnays e pesce crudo. Di tanto in tanto mi alzavo per rispondere a Dioniso. Le nostre telefonate duravano due minuti e venti secondi.
La donna tenebrosa e bellissima. Dov’era? Con lui?
In me. Sempre.
Paragonarsi all’assurdo. Emergere dall’altra parte della terra. Sentirsi feriti e non poterlo dire.
Ermes, puoi sentirmi?
Ti sento ogni volta che respiri.
Ermes, puoi salvarmi?
Ci sto provando, ma tu non mi aiuti.
Ermes, cancellami!
Non ho la gomma.
Una volta Dioniso venne a trovarmi a Metropoli. E io non lo sapevo. Ermes non lo sapeva. Nessuno lo sapeva.
Io ed Ermes. Ermes e io. Casa mia. lenzuola rosse. Mandala azzurro. Cassettone arancio a fiori rossi. Tavolo indiano. Cuscini.
Ermes preparava da mangiare. Ermes mi medicava i polsi. Ermes versava il vino. Il sangue di Cristo. Spezzava il pane. Amen.
Dioniso in cortile. Finestra aperta. Dioniso. Ci vedeva.
E dunque entrò. Raccolse le forze. Spaccò le porte.
Ermes non aveva scudi. Io non ero. Dioniso gridava parole sconnesse. Insulti. Lacrime amare. Sapore di brina. Memoria spezzata.
Ermes e Dioniso. Dioniso e Ermes.
Si prendevano a calci. Il tavolo indiano si spezzò in due.
Io andai in cucina. Presi l’alcol per i pavimenti. Lo versai sul linoleum. E presi i fiammiferi. Ne accesi uno. Due. Tre.
Zampilli di fiamme. Creste di fuoco. Pavimento spaccato.
Uscii dalla finestra. Richiusi. Sentii le grida.
Hai mai visto il cielo esplodere?
Cominciai a scappare. Fiamme. Miasma di cherosene. Declivio. Fuoco. Un fiore di fuoco. Un cuore spaccato.
Due corpi centuplicati. Miliardi di frammenti di Ermes e Dioniso. Dioniso e Ermes.
Correvo. Fuggivo.
Ma per quanto fuggissi la cenere non andava via.

© Ilaria Palomba
Foto: Luigi Annibaldi

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Le notti in quella grande casa 245 di north circular road con lupo anya e alex a cercare spiriti nell’ululato del vento a rotolarci in gonfiabili materassi mentre sopra c’è musica tossica alle quattro del mattino svegliandoci di soprassalto per il gran rumore che anya non sopporta e alle quattro del mattino non sopportando si mette a scrivere mail per denunciare l’accaduto ai proprietari e aspettando che l’inquilina chieda spiegazione per dargliele con fuck off annesso e ammette mi sono trattenuta dal dirle di peggio le mattinate con alex che prepara il te svegliandoci con colazioni in camera a girare su bus tour sleeppando sui sedili per non aver dormito la notte per la musica e il vento a cercare i pub delle peregrinazioni di Joyce dopo averne visitato gli appartamenti a bere irish coffie a temple bar con natalizie decorazioni e musicisti folk in rigorose camicie a quadri a ridere di nottambuli limoni e anoressici fantasmi che fuori dallo specchio della lavanderia domandano who are you in precisissimi inglesismi da dopoguerra a rotolarci sul pavimento con irlandesi che offrono costosissimi eccitanti mentre si gioca con cani rebel e si ascolta david bowie parlando multilanguage e comprendendo meno di un terzo dei discorsi strafatti a bere cydro e poi vino e poi wiskey all’una di notte mentre il vento ha la voce di uno spettro a fantasticare dissotterramenti di cadaveri sotto lapidi di byrne incorniciando con fotografici flash i cristi in pietra lavica scolpiti agli angoli di oscuri giardini infernali a guardare film horror leggendo su wikipedia storie sulla north circular road parlando di inspiegabili suicidi e abbandonate stone’s ville una volta rigogliose e prospere ora ricoperte da rampicanti piante demoniache e sterpaglie da incubo a vagare per dublino tra trinity college e st stephen’s green elemosinando il sole di mezzogiorno lasciandoci incantare da gotiche cattedrali in pietra medievale st peter church e st patrick’s church dalle luminosissime vetrate che incendiano l’oscurità incendiano e incantano lo sguardo nell’assoluto bagliore a sbirciare scene di spaccio di uomini in bicicletta che corrono a confessarsi e incontrano pusher knacker in tuta adidas dentro chiese st dominic’s church e corrono fuori a diffondere il verbo dello sballo giriamo al freddo nel vento assassino tra prigioni kilmainham e glasnevin cemetery comprando vomitevoli caffè per banchettare con cornetti e tramezzini da supermercati teco ce ne stiamo nella penombra di uno scenario alla tim burton scattando irriverenti foto su lapidi carton mentre fuori l’odore di pioggia invischia l’aria che cambia ogni istante sole pioggia e tramonto una notte ce ne stiamo a bere vino nel quartiere ultramoderno bord gáis energy theatre tra luci sparate e liffey straripato fa un freddo che immobilizza i muscoli i piedi non li sentiamo più e ci passa davanti un riccetto in bici che ha l’aria di avere meno di diciotto anni chiedendo sigarette e regalando accendini con foglie di marijuana incise sopra si avvicina raccontando strafatto di esser finito sui giornali per aver provocato incidenti in bici e mostrando documenti falsi stampati in francia racconta di aver passato tre giorni in carcere per tentata strage ma di esserne uscito incensurato fottendo il sistema con documenti falsi stampati in francia durante la leva militare mi presenti il tuo spacciatore gli chiedo ma non comprende e anya gli parla e traduce dall’inglese permettendosi di correggere il tutto con qualche bestemmia in barese e così i nostri piedi assiderati domandano venia e ce ne scappiamo con il vento a trafiggere le ossa scappiamo verso lo spire con il fiato mozzato dal gelo e c’è un odore inspiegabile di freddo che s’insinua nelle fenditure delle ossa allo spire l’ultimo taxi ci porterà nella casa degli spettri io e anya resteremo sveglie la notte a rimembrare adolescenziali furori e a non riconoscerci mentre le vite degli altri – nel passato – ci scivolano sopra come oniriche ombre in una notte lunga un’esistenza.

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© Foto: Luigi Annibaldi

© Testo: Ilaria Palomba